23.2.12

President*

Signor Presidente...
E' questa la frase con cui Deputati e Senatori iniziano i loro interventi in aula, una frase che oltre ad essere una consuetudine rappresenta una forma di rispetto. Se però a presiedere la seduta è una donna la frase Signor Presidente..., che molti continuano ad usare, oltre ad essere formalmente scorretta dimostra uno scarso rispetto per colei che in quel momento rappresenta la seconda, se al Senato, o la terza, se alla Camera, carica dello Stato. Una negazione della specificità della persona attraverso l'affermazione dell'esistenza del solo genere maschile. Come quando, e quante volte è successo, si elimina la qualifica professionale ed una donna  viene presentata come "la signora" mentre mai per un ingegnere si direbbe solo "il signore", quasi a voler ribadire se pur in modo incosapevole, ma non per questo meno grave, che certe cose sono "roba da uomini". Non sembri una questione di lana caprina o da veterofemminista radical chic, l'uso delle parole è importante perchè sono l'espressione del nostro pensiero, le parole, specie se usate con consuetudine e quindi senza fare particolari sforzi di ricerca, sono l'esternazione del nostro essere profondo. Certo, non ci siamo abituati, alcune parole ci suonano strane, vigilessa, ingegnera, forse nel vocabolario della lingua italiana non esistono neanche. Personalmente ci ho messo moltissimo ad abituarmi ad usare, e sentirne il suono, parole al femminile come ad esempio assessora che una amica sorridendo mi invitava a pronunciare,  ma mi pare giusto usarle per una forma di rispetto non solo formale o retorico ma sostanziale. Compiere lo sforzo linguistico per valorizzare la specificità delle donne è sicuramente più importante ed utile delle mille parole di circostanza con cui le sommergeremo l'otto marzo.
E comunque presidentessa nel Garzanti c'è.

12.2.12

Le galere ci vannno bene così

Indecente, umiliante, indegno, inaccettabile. Sono questi gli aggettivi usati per descrivere le condizioni delle carceri  da tutti quelli che hanno la voglia o la possibiltità (e spesso chi ne ha la possibiltà, per non dire il dovere, non ne ha voglia), di visitare uno qualsiasi degli istituti penitenziari del nostro bel paese. In realtà questi aggettivi snocciolati con aria seria e afflitta davanti alle telecamere sono usati a sproposito, visto che l'assoluta mancanza di azioni per riportare rapidamente nella legalità il sistema dimostra inequivocabilmente che la situazione, come scrive Zagrebelsky su La Stampa, è accettabile ed accettata. Se si decide di non attivare o chiedere l'attivazione di quello strumento, previsto dalla costituzione, che si chiama amnistia e che rappresenta l'unica possibiltà per un rapido rientro nella legalità del sistema carcerario, è evidente ed incontroverbile che si ritiene la situazione attuale, fatta di sovraffollamento, degrado e suicidi, tollerabile per lo Stato ed anche per il proprio personale concetto di giustizia e legalità. Ma  la scelta, consapevole e voluta, di non fare un'amnistia rende evidente anche un altro aspetto di cosa "stato di diritto" significhi per i parlamentari della Repubblica, con l'eccezione dei Radicali e pochi altri, e, va detto, anche per molti cittadini. Dietro le urla e l'indignazione di facciata per una amnistia che in modo legale e  visibile consenta di porre mano alla crisi del sistema giustizia, in realtà si nasconde l'accettazione di quell'amnistia quotidiana, oscura e di classe, perchè disposizione di chi può permettersi ottimi e costosi avvocati, che va sotto il nome di prescrizione e che ogni anno cancella, distrugge, manda al macero 200.000 processi. 200.000 processi in cui non si riconosceranno ne colpevoli ne vittime. A questo punto i molti che in parlamento o alle sagre paesane, purchè a favore di telecamera, sbraitano  raccontando la favola dell'abdicazione dello stato al crimine abbiano per una volta il coraggio di ammettere che a loro va benissimo l'amnistia purchè venga fatta di nascosto e che trovano assolutamente accettabile un carcere dove si vive da bestie e da bestie si muore.

3.2.12

Padroni del mondo

L'ultimo saluto ad un amico, un saluto fatto rispettando le sue volontà anche se queste prevedono di partecipare ad un rito in cui non credi. Lo fai senza difficoltà, senza sentirti in conflitto con le tue convinzioni, perchè sei li per lui e il resto non conta. Però visto che sei li ascolti, e allora ti senti dire che tutto sulla terra appartiene ed è a disposizione dell'uomo. Appartiene? Semmai è in prestito e da maneggiare con estrema cura ed attenzione. Quando senti parole come queste non puoi fare altro che rafforzare il tuo non credere.